“Del Lago di Como è emissario l’Adda; sicché, volendo unirsi a questo, bisognava tirar un naviglio sino a quel fiume. Nel 1457, ducando Francesco Sforza, si costruì un canal dal castel di Trezzo alla città, e denominossi dalla Martesana, contado che traversa. Diressero i lavori l’ingegnere Bertoli di Novate e il commissario Rosino Piola; si formò lo sprone, che protendesi nell’Adda metri 118, disposto a piano inclinato, colla cresta elevata appena quattro braccia, affinché traboccandone l’acqua nelle maggiori gonfiezze, mantengasi a quasi costante livello il canale”. Il naviglio aveva una portata di 34,5 metri cubi e uno sviluppo chilometrico di km 38,721, dall’incile vecchio di Trezzo sull’Adda al Tombone di San Marco in Milano. “Dal Castel di Trezzo il naviglio è, per quasi 5 miglia, scavato nella costa dell’Adda, passando per Concesa e Vaprio, sostenuto da arginature, che si elevano da uno fin a 40 braccia; onde, a chi passeggi la strada dell’ alzaja, offre spettacolo singolare l’acqua, che al disotto vorticosa e spumante frangesi tra i massi, mentre in alto, assoggettata ai voleri dell’uomo, lenta sospinge o scarsamente resiste alle navi, che vi son rimorchiate da pazienti cavalli.” Fu restaurato nel 1571, allargato dall’incile a Groppello, reso più profondo nell’alveo; ritornò completamente navigabile nel 1574. La navigazione lungo il Martesana assunse ben presto una funzione strategica di confine con la Repubblica Veneta. Lungo l’asse del naviglio correva il commercio di materie prime e prodotti fra l’Adda, finestra commerciale delle merci provenienti dalla Valtellina-Valsassina, e la città di Milano. La sua realizzazione aprì, di fatto, una direttrice fondamentale per la sopravvivenza degli stessi mercati milanesi.
Il naviglio fu realizzato a tempo di primato in soli sei anni, fra il 1457 e il 1463, e stupì per l'arditezza del letto del canale, scavato a mezza costa, e la pendenza del corso d'acqua che lo mettevano in grado di provvedere anche all'uso irriguo. Fu scavato nel ceppo vivo della valle dell'Adda ai margini del terrazzamento argilloso della Pianura Padana, dal vecchio incile di Trezzo sull’Adda (di cui rimane una pietra angolare a pelo libero) al congiungimento con la Fossa interna dei Navigli Milanesi presso la Conca dell'Incoronata. "Son lode della prima costruzione gli scaricatori (travaccatori), posti a tratto a tratto per l'uopo stesso, e le botti sotterranee per le correnti vive che lo traversano, fondate sulla teorica del sifone". (C. Cantù, Illustrazione del Regno Lombardo-Veneto, Milano, 1857). Il naviglio non solo assicurava il movimento di uomini e mezzi, ma alimentava a sua volta numerose rogge e cavi idraulici nella zona di Gorla che si venne così a trovare all’origine di una fitta canalizzazione irrigua, originata dal naviglio, che confluiva poi nei canali e nei fiumi secondari lombardi (Redefossi, Vettabbia, Lambro), assicurando in tal modo l’approvvigionamento di acqua ai campi e alla città.
Le fonti documentarie più antiche sulla conformazione territoriale dei Contadi segnalano come già nel 931 il termine Martesana identificasse un’area territoriale ben definita, ma le prime testimonianze documentarie certe sulla sua organizzazione come Contado rurale risalgono solo al 1158. Nel 1163 il territorio del Contado del Martesana risultava delimitato dal torrente Molgora e dal fiume Seveso che segnavano anche il confine occidentale con il Contado del Seprio, dalle zone montuose del territorio lecchese a nord e dal territorio della Bazzana a sud. Più scarse e datate sono le notizie sull’esistenza dell’entità territoriale che si identificava con il termine Bazzana. Le prime testimonianze risalgono al XII secolo e sono costituite da atti di cessione di rendite o di acquisto di terreni “siti in Bazana”; ciò consente di sostenere che il territorio della Bazzana occupasse l’area posta verso i confini meridionali e orientali della campagna milanese. Lo stesso “Liber consuetudinum” del 1216, codificando la diversità giuridica fra le terre comprese entro un raggio di sei miglia attorno alla città e quelle al di fuori di tale raggio, distingueva per la prima volta i territori della Bazzana dal resto della campagna milanese senza però dare a tale circoscrizione una chiara e definita delimitazione territoriale. Intorno alla seconda metà del XIII secolo iniziò il processo di aggregazione dei territori della Bazzana al Contado del Martesana: le Pievi di Cesano Boscone, nucleo primitivo del contado, e quelle di Rosate, Decimo, Locate, Segrate, San Donato, San Giuliano e Settala incominciarono ad essere gradualmente accorpate ai territori del Martesana e subordinate alla giurisdizione del suo Capitano.
La differenza fra l'alta e la bassa pianura s’imponeva visivamente per la diversità delle terre del Martesana e del solco aperto fra il terrazzo argilloso delle terre asciutte, a nord del naviglio, e la fascia irrigua, a sud del naviglio. A nord: "I villaggi che a piccolissime distanze incontransi per tutto l'alto milanese, sono in gran parte aggregati di case, abitate dalla popolazione che coltiva i poderi circostanti.” A sud: "Inoltre scorgonsi qua e là ne' nei campi grandiose cascine, fabbricate con non comune solidità, e spesso anche con eleganza".
Il Naviglio Martesana, chiamato fin da subito “Naviglio Piccolo” per differenziarlo dal Naviglio Grande (o di Gaggiano), si avvalse dell’esperienza diretta della Scuola Idraulica Milanese, in particolare di Filippo degli Organi da Modena e Fioravanti da Bologna, che avevano già realizzato la Conca di Viarenna, sul Naviglio Grande (1439) . La Conca di Viarenna metteva in comunicazione la Darsena di Porta Ticinese con la Cerchia Interna dei navigli. In Milano, il Martesana s’immetteva nella Fossa interna presso il Tombone di San Marco. La Cerchia Interna si distendeva per 5,25 chilometri, vincendo il dislivello fra San Marco e Porta Ticinese, che era di 6,99 metri, con 5 conche, tutte disattivate ad eccezione della Conca dell’Incoronata (via Castelfidardo) e della Conca di Viarenna o di Nostra Signora del Duomo.
La Fossa interna, alimentata dal Seveso, dalle risorgive e successivamente dal Martesana, era larga il doppio e anche più profonda, ma non era navigabile. “In seguito alla costruzione del Naviglio del Martesana, la fossa dei navigli fu ridotta in larghezza in modo da ricavare delle aree per il deposito di merci nei terrapieni a lato del naviglio, meglio se porticati. “
Nel 1494 Ludovico il Moro ordinò il rifacimento degli argini del Martesana, l’allargamento dell’alveo e l’abbassamento del fondo per garantire la navigazione e l’uso irriguo; pretese che il Martesana fosse allacciato alla Fossa Interna dei Navigli Milanesi e per questo incaricò lo stesso Leonardo da Vinci che si premurò di realizzare il collegamento, il 13 ottobre 1496, con tanto di patente ducale e “sigillo ducale” della Conca dell’Incoronata (via Castelfidardo). L’allacciamento vero e proprio avveniva, però, all’incrocio con via Fatebenefratelli (Piazza San Marco); una derivazione del naviglio alimentava anche la fossa del Castello Sforzesco ad uso irriguo. “Dopo la Conca di San Marco, il Naviglio piega a mancina, e circola per 3373 metri, moderato dalle conche del Ponte di Marcellino e di Porta Orientale. Al Ponte degli Olocati torce verso Viarenna per unirsi al Grande; tratto di 585 metri, con una conca. Di là del ponte degli Olocati, la fossa interna alimentata dalla gora del Castello, per 1195 metri, con una conca. L'opera era compiuta nel 1497.”
Ben presto sorsero conflitti d’interesse tra la navigazione e l’irrigazione. La tassazione dell’uso dell’acqua, pratica assai fiorente all’epoca, fece il resto. L’annoso problema che accompagnò la gestione del Naviglio Martesana riguardava proprio l’utilizzo e la concessione delle numerose bocche per l’irrigazione disseminate lungo tutto il suo percorso; le bocche irrigue in periodi di scarsità d’acqua limitavano il regolare svolgimento della navigazione; viceversa, l’utilizzo dell’acqua per scopi commerciali limitava l’erogazione dell’acqua per fini irrigui. A questo scopo furono emanati nel corso del tempo diverse “grida” che venivano affisse nei locali pubblici (“hostarie”) perché fossero di dominio pubblico. L’inottemperanza alle disposizioni comportava spesso delle punizioni esemplari, non solo multe, anche pene corporali da eseguirsi sulla pubblica piazza.
Donazioni e concessioni venivano usate come merci di scambio in cambio di favori politici. Essendo il naviglio trattato dal Duca come un bene privato, la disciplina delle sue acque era sottoposta al volere e, alle volte, ai capricci dei vari governanti e possessori di terre. Nel 1509 i Deputati della Fabbrica del Duomo lo chiesero addirittura in regalo al Re di Francia. Successe anche che nel 1515 Massimiliano Sforza, poco prima di abbandonare la città in mano ai Francesi e per pagare i debiti contratti per la guerra, vendette acque, alveo, rive e diritti sia del Grande che del Martesana alla Città di Milano. Il successore, Francesco I, mancando il pagamento dei cittadini, lo avocò nuovamente a sé considerandolo una proprietà ducale.
E in effetti gran parte della fortuna delle bassa dipendeva dall'andamento stagionale mentre la fascia asciutta poteva contare su prodotti non copiosi ma sicuramente più vari. "Alla vigna e al gelso ivi s'aggiunge l'ulivo, e vi fanno corona i verdi gioghi di verdura festanti, ove si alternano annosi boschi di castagni con belle praterie, che nella stagione estiva, danno pascolo a numerose mandrie.” Dalla Volta di Cassano in direzione di Milano, il paesaggio del Martesana cambiava decisamente volto per assumerne uno contrassegnato da ampi campi coltivati in terreno asciutto (terre alte) a nord del corso d’acqua e, a sud, da ampie distese irrigue fra rogge e fontanili. Il territorio delimitato dalla Statale Padana Superiore SS. 11 (Milano-Torino), dalla Roggia Crosina, dal Naviglio Martesana, dalla fascia dei Torrenti Molgora e Trobbia, segnava anche la linea di confine fra la base sinuosa dei rilievi morenici (da Somma Lombardo a Paderno d'Adda) e la fascia irrigua attraversata nella sua estensione da nord a sud dal Canale Muzza.
La speranza dei milanesi di ergersi a padroni assoluti dei commerci via acqua riscuotendo imposte di transito, dazi e gabelle sulle merci in transito, fece sì che ogni controllo sulla navigazione fosse demandato a custodi o "campari" di nomina governativa e che la stessa navigazione fosse regolata scrupolosamente dalle "grida speciali" affisse nelle osterie e nelle stazioni di sosta dei barchetti. Alla cura dei navigli venivano preposti diversi "custodi o campari" distribuiti lungo tutta la linea dei canali: una professione certamente remunerativa e carica di favori. Alla supervisione delle varie opere venivano invece preposti gli ingegneri ducali camerali ed altri agenti della Regia Camera che operavano sotto la direzione del Magistrato delle Acque.
Una delle condizioni ottimali della navigazione era il mantenimento costante del livello delle acque che doveva convivere con l'irrigazione delle terre e l'uso dell’acqua che i vari possessori di privilegi esercitavano sulle bocche di presa. Per ovviare a tutto questo venivano emanate delle ordinanze e leggi speciali che intimavano la chiusura perentoria di determinate bocche in periodi stabiliti limitando in tal modo il danno che ne veniva alla navigazione. Le numerose grida che ingiungevano multe verso i contravventori alle grida ricordano i tanti litigi scoppiati fra gli stessi barcaioli; multe che si spingevano in taluni casi fino a bandire il contravventore o ad imprigionarlo per violazione delle norme prestabilite nel bando; in altri casi ancora giungevano fino alla punizione corporea (con frusta) sulla pubblica via. Il privilegio di disporre, dunque, dell'uso dell'acqua era entrato in uso a discrezione dei vari regnanti come un bene prezioso che andava conquistato e mantenuto a caro prezzo. "Difatti il commercio dei canali del Milanese era divenuto per se stesso un articolo rilevante delle entrate ducali a motivo dei dazi ordinari imposti sulle merci".
Inoltre l'acqua veniva adoperata come bene di scambio per ingraziarsi favori o per imporre delle tariffe fisse di riscossione d'imposte dette della "catena e della conca". "Istituiti originariamente sulle merci e prodotti navigati per esonerare la Camera dalle spese di riparazione e manutenzione dei canali medesimi. In seguito i dazi vennero trasformati in diritti fissi di navigazione devoluti al Principe, sullo stesso livello delle altre entrate dello Stato".
Come misura della portata d'acqua da regolamentare i milanesi inventarono il cosiddetto modulo magistrale milanese collocato "in fregio ai canali distributori, cioe' nel loro margine. E' formato di un canale di derivazione e serve per misurare la portata dell'acqua, in due parti chiamate trombe, di cui l'una succede all'altra, lunga ciascuna poco meno metri 6". Come si può facilmente intuire l'acqua costituiva una fonte principale del reddito ducale. Questa complessa pratica secolare trovava la sua intima giustificazione nell'economicità del trasporto via acqua e non fu abbandonata neanche quando il progresso delle ferrovie sembrò spazzare via in un solo colpo la tradizione e la letteratura dei traffici lungo i navigli, almeno nella seconda metà del XIX secolo.
Con la realizzazione del Naviglio Martesana e del Naviglio di Paderno (1777) nel tratto tra Paderno d’Adda e Cornate (Valle della Rocchetta) la navigazione dal Lago di Lecco allo sbocco nel Po vedeva al lavoro una flotta di barche che "...da Lecco portano a Milano calce, carbone, legna d'ardere o da opera, gesso, fieno, sassi da calcina o di fabbrica; oltre 150 zattere di tronchi uniti e galleggianti. Discendendo, si va da Lecco a Brivio al naviglio in un'ora; tre e mezzo si consumano in questo; una e mezzo dallo sbocco fin a Trezzo, poi da Trezzo a Milano 8 ore; in tutto 21. Da Lodi a Pizzighettone voglionsi 9 ore, e 3 a giunger allo sbocco […] In estate consumansi 9 giorni da Milano a Brivio, e uno da Brivio a Lecco: d'inverno fin 15 giorni. Dalla confluenza in Po sino a Pizzighettone si tiene un giorno e mezzo, quattro e mezzo da Pizzighettone a Lodi."
Le merci trasportate via acqua erano principalmente (in discesa) pietre da taglio e pietre lavorate, calcine diverse, laterizi, metalli, sabbia e ghiaia, armi e arnesi in ferro battuto, vettovaglie e prodotti agricoli, legna e carbone; dalla città ascendevano, invece, verso il Lago - non essendo i canali navigabili in ascesa da barconi carichi - manufatti e principalmente sale. Nella darsena milanese di Porta Ticinese confluivano i barconi carichi di sabbia e ghiaia del Ticino; in San Marco faceva tappa, invece, la flotta del Contado del Martesana, della Valtellina, della Valsassina e delle valli bergamasche che trasportava seta, carbone di legna, ferro, marmi e pietre che venivano poi stipati, sin dai tempi della Repubblica Veneta e del Ducato di Milano, nei magazzini di San Marco e nelle sciostre del fossato interno dei navigli.
L’importanza delle merci trasportate dal versante orientale portò alla creazione di un vero e proprio "Porto in Terra" in zona San Marco presso lo storico "Tombone" tanto caro a Filippo Turati che lo immortalò nella sua celebre poesia ispirata al “Gorgo malefico”. L'area assolveva alla vocazione portuale di Milano e ancora l'avrebbe assolta, almeno fino al 1929 anno di definitiva cessazione della navigazione all'interno della città di Milano se è vero che la navigazione lungo il Martesana fece registrare un traffico, nel trentennio 1850-1880, di 1.400 tonnellate (media annuale in ascesa) e 76.000 tonnellate (in discesa) contro i 1.500 in ascesa e i 142.000 in discesa del Naviglio Grande.
In seguito alla costruzione del Martesana la fossa dei navigli fu ridotta in larghezza in modo da ricavare delle aree per il deposito di merci nei terrapieni porticati a lato del naviglio; tali spazi vennero chiamati in dialetto "sciostre" da "claustrae", strutture semiaperte, poste solitamente in sponda al naviglio per deporre e serbare robe varie, soprattutto materiale non deperibile ad imitazione dei portici dei chiostri conventuali. Accanto ai mercati di approvvigionamento delle merci si svolgevano quotidianamente al levar del sole anche le tratte della manodopera; famoso era il mercato dei muratori di via Pontaccio.
Conche, darsene, ponti furono pensati e realizzati al servizio esclusivo della navigazione e del movimento di uomini e persone lungo le alzaie. Molti di questi manufatti non furono, però, realizzati spesso per mancanza di fondi. Così fu per il ponte-canale del Martesana sul Lambro all’intersezione delle Conche di Gorla e della Cassina de Pomi; il ponte fu progettato con 6 archi ma non venne mai realizzato. “Al luogo dell'intersezione del fiume Lambro col Naviglio della Martesana era stato costrutto in origine un ponte-canale per l'innocuo passaggio delle acque del fiume, e più sotto sulla continuazione del canale navigabile un sostegno detto la Conca di Gorla. Ignorandosi ora lo stato preciso della prima costruzione di tali edifici non si saprebbero indicare i loro difetti; ma si sa però che la posteriore sistemazione delle ultime tratte del Canale Martesana vi portò la costruzione di un sostegno nel luogo così detto la Cassina de' Pomi posto a qualche miglio di distanza da Milano. Questo sostegno rendeva inutile la conca di Gorla, e per il motivo di schivare diversi inconvenienti venne rappresentato a Francesco II Sforza come cosa utile il far levare ambedue quegli edifizi ed il lasciar decorrere liberamente le acque del fiume Lambro nel letto del Naviglio della Martesana. Una tal opera essendo di pura distruzione, e perciò non incompatibile colle finanze dello Stato a quell'epoca, fu ordinata ed eseguita verso il 1533. Dopo di ciò restava per altro ancora un grande difetto al Naviglio della Martesana nella libera intersecazione delle sue acque con quelle del fiume Lambro, la quale in tempo di piena metteva in pericolo le barche cariche al loro passaggio, e ad ogni momento cagionava dispendi alla Camera e incomodi alla navigazione colle rotture e cogli interrimenti. Per riparare pertanto una volta per sempre anche a questi disordini del passaggio del Lambro fu progettata, fin d’allora una fabbrica di ponte canale in sei archi; ma tale idea, avendo poi finito coll’essere abbandonata per mancanza di mezzi economici, vi ha dato luogo al ripiego tuttora sussistente. Questo sta nell’aver ridotto le sponde in quel punto del Naviglio della Martesana al puro necessario per contenere soltanto le acque ordinarie; nell'avere di più sulla sinistra aperto molti ampi paraporti per isfogo delle acque e delle materie portate sulla destra dal fiume, e nell'avervi fabbricato sopra i paraporti un ponte di pietra a diversi archi per la continuazione della strada dell'alzaia.” Evidentemente le preoccupazioni di soddisfare ambedue le funzioni del naviglio, irrigua e commerciale, costituì il perno del problema Martesana che, a differenza del Naviglio Grande, interessò più direttamente i borghi cittadini. Se il Grande serviva principalmente la Fabbrica del Duomo, il Martesana serviva, invece, una causa più grande che lo connotava più come naviglio urbano. Molti furono i problemi che si addensarono sulla sua sorte che risentì, più di ogni altro naviglio, delle ingerenze della cosa e del bene pubblico.
Nella gestione della cosa pubblica rientravano anche i ponti: Gorla ne aveva due, il Ponte vecchio che collegava Piazza dei Piccoli Martiri di Gorla con Via Bertelli-Dolomiti lungo la direttrice per Turro e il Ponte obliquo di Viale Monza lungo la direttrice per Precotto - Sesto San Giovanni. Il Ponte Vecchio, fu costruito nel 1703 in blocchi di pietra di ceppo dell’Adda (puddinga); le rampe di accesso al ponte, pavimentate su ambedue i lati in ciottoli tondi di fiume, formavano un disegno a “rizzada” (disegno a spina di pesce). La sua morfologia, piccola e arcata, permise il passaggio dei barconi sotto le sue arcate almeno fino al 1952, anno in cui il naviglio fu declassato dalla categoria di canale navigabile. Fuori dall’alveo il piccolo ponte serviva, invece, il traffico veicolare di carretti, carrozze e pedoni. Il Ponte obliquo di viale Monza, realizzato nel 1838, aveva invece dei bugnati applicati a rinforzo e decoro delle sue spalle. “Si cominciarono i lavori di essa e del ponte nel febbraio 1838, e al fin di maggio era chiusa la volta del ponte, al fin di agosto compite anche le opere accessorie”. “L'ingegner Carlo Caimi die' prova d'abilita' facendo i lavori al ponte senza levar l'acqua al canale. Esso ponte ha di lunghezza sull'asse del naviglio metri 31; di larghezza fra spalla e spalla metri 14.”
Alcuni anni più tardi, durante la dominazione spagnola, venne decisa nel 1549 una deviazione del corso del Naviglio Martesana presso la Cassina de’ Pom per non intaccare la cinta murata gonzaghesca posta a fortificazione di Milano. La situazione politica di Milano in quegli anni non era certo la più favorevole per una rapida esecuzione di lavori di quel genere. Due anni più tardi, nel 1533, il Duca di Milano ribadiva la necessità della distruzione della Conca di Gorla e della modifica del fondale del Naviglio. Nemmeno questo pressante invito ottenne, però, il risultato sperato e la realizzazione del progetto rimase un altro dei problemi lasciato in eredità agli Spagnoli che due anni più tardi divennero i nuovi dominatori di Milano. È così che apprendiamo dell’esistenza di una Conca a Gorla e della ferma volontà di eliminarla per pareggiare il livello delle acque: conche e scolatori servivano allo scopo. Le uniche notizie certe sull’esistenza della Conca di Gorla derivano quasi esclusivamente dalle note di una lettera del Duca Francesco Sforza II nella quale si chiedeva al luogotenente Bentivoglio di “levare la Conca di Gorla”; a sostegno dell’istanza il Duca scriveva “doversi murare la città di Milano… far levare la conca di Gorla, ed abbassare il fondo del Naviglio Martesana fino al Lambro e più oltre secondo il bisogno onde riesca più spedito il corso dell’acqua”. Evidentemente occorreva una maggiore velocità dell’acqua per scopi commerciali, ma anche e, soprattutto, per usi militari affinché il “corso de l’aqua sii expedito”; si era intorno al 1470. Nel 1535 la Conca di Gorla fu demolita come da decisione di Francesco II Sforza per la fortificazione di Milano. “L’importante modifica al sistema conche fu proposta nel 1531 da Francesco II Sforza con comunicazione al governatore Bentivoglio di aver dato ordine ai Maestri delle entrate di far togliere la Conca di Gorla e di abbassare il fondo del Naviglio fino al Lambro; questo per avere più acqua per facilitare il trasporto di materiali per la costruzione della cinta muraria progettata da Girolamo Melzio per ordine del duca”.
I barconi portavano a Milano sabbia, ghiaia, pietre da costruzione e materiale edile; fieno, paglia e granaglie dalle campagne, vino, forme di formaggio, bresaole e prosciutti, ma anche latte fresco, uova, frutta, pesci di acqua dolce, verdura, piccoli animali domestici per le tavole dei milanesi e poi ferro e acciaio lavorato, minerali, carbone di legna e legna da ardere. Nel 1884 l’ingegnere Gallizia ci informava che le barche del Martesana e del Lario erano di tre tipi: le “grandi” (barconi), lunghe 24 metri capaci di un carico di 36 tonnellate; le “mezzane”, lunghe 22 metri, dalla portata di 32 tonnellate; infine i “borcelli”, lunghi 18 metri, capaci di 25 tonnellate. Tutti barconi portavano carichi consistenti mentre i “barchetti” coperti e scoperti erano in grado di trasportare modeste quantità di merci (un terzo o un quarto della portata dei barconi più grandi) e anche passeggeri. "Le navi sui navigli denno essere lunghe da 18 a 24 metri; larghe da 4,20 a 4,60 sul fondo. Una nave di carico ordinario, cioè che peschi metri 0,70, giunge ora da Lecco a Brivio in 3 ore, di quivi a Paderno in una, in due percorre il Naviglio; in un'altra arriva alla chiusa di Trezzo, e 8 ne consuma nel canal della Martesana, cioè ore 15 in tutto per correre metri 73,475. La fossa interna della citta' fra i due tomboni, lunga metri 5090, vuole 4 ore con barca carica." .
Alla flotta si doveva aggiungere il parco animale (cavalli) per l'attiraglio contro corrente delle cobbie. "Molta maggior fatica richiede il rimontare, al qual uopo si uniscono in convogli che dicono cobbie. Una cobbia di 5 barche tirata da 5 cavalli, risale il naviglio della Martesana in 36 ore; in 8 da Trezzo a Paderno con 10 o 12 cavalli". In altri casi si “uniscono in 'cobbie' fin di 10 o 13 secondo la piena, e vi si attaccano 10, o 21 cavalli, con cui, eccetto il naviglio, si tirano fin a Garlate. Di là procedono a vela e remi.” I barconi vuoti risalivano il corso del naviglio a gruppi di due o tre trainati da quattro cinque o più cavalli. Quando incontravano un ponte il conducente spronava i cavalli ad accelerare il passo per dare più velocità ai barconi, li sganciava dalle borche e faceva passare le corde dall’una all'altra parte del ponte per riattaccarle poi ai cavalli; questa operazione doveva essere ripetuta ad ogni ponte. Era un lavoro che andava fatto con una certa velocità e tempestività per evitare spiacevoli inconvenienti. Più tardi i cavalli furono sostituti dal trattore, ma la tecnica non mutò; i battelli rimorchiatori sostituirono successivamente il trattore il che permise ai battelli, dotati di un’elica per le manovre e non già per la propulsione, di agire direttamente nell’alveo del canale. Quando il barcone giungeva a destinazione il timoniere saltava a terra e con una grossa fune, che avvolgeva alle bitte fissate al suolo, arrestava la corsa del barcone vincendo in tal modo l’abbrivio; una sola bitta non bastava per cui bisognava avvolgere la fune attorno a più bitte. Qui il barcone veniva scaricato con gru girevoli e travasato nei silos dalla sagoma simile alle tramogge dei mulini; una volta scaricato, il barcone veniva approntato per una nuova risalita facendo rientrare semplicemente il timone del barcone giacché le barche del Martesana non potevano contare su spazi sufficienti per operare un’inversione di rotta nell’alveo del canale; per questo erano dotate di una conformazione a doppia prua del barcone.
Per breve tempo, nel tratto tra la Cava Gaggiolo di Vimodrone e il porto in terra della Cassina de’ Pom a Greco, fu in funzione un servizio di risalita a cremagliera che riportava le barche alla cava senza l’impiego di cavalli, trattori, battelli rimorchiatori: una catena di ferro posta sul fondo del canale agganciava le barche e le trainava lungo quello che venne definito il “percorso della catena”. “Dopo il primo aggancio all'inizio del percorso una ruota di acciaio con la gola opportunamente sagomata a femmina di catena, posta sul battello e ruotante per mezzo del motore di bordo, ingoiava man mano la catena procedendo e riadagiandola sul fondo del naviglio. La catena altro non era che una cremagliera e la ruota il pignone; il battello misurava circa 7 metri di lunghezza e metri 2,5 di larghezza. Gli anelli della catena avevano una lunghezza di 7 centimetri circa, il tondino misurava 1 cm. I barconi discendevano uno alla volta con un intervallo di tempo pari al tempo di carica del barcone successivo. Un solo conducente li guidava mediante un lungo timone di 8 o 10 metri di lunghezza. Posta trasversalmente al barcone c'era anche una tavola, lunga quanto la larghezza del barcone, e dietro, fissato al barcone, un palo verticale che serviva d'appoggio al timone. Il timoniere camminava avanti ed indietro su questa tavola col palo appoggiato sulla spalla abbordando le sinuosità del Martesana”. (Testimonianza di Vigotti Ambrogio). Tutto questo avveniva agli albori della grande ricostruzione di Milano, dopo la fase di ristagno dell’epoca ottocentesca, e durò fino al 1952 anno in cui cessò ufficialmente la navigazione sul Naviglio Martesana.
Per completare il disegno della navigazione continua dal Lago di Lecco a Milano Francesco I, su invito pressante dei commercianti milanesi, cercò di rendere navigabile l’Adda a nord di Trezzo sull’Adda con un concorso di progetti e uno stanziamento delle entrate per gli anni a venire. Il progetto del Naviglio di Paderno prevedeva la costruzione di una bretella parallela all’Adda che permettesse di superare le Rapide di Paderno senza i complessi e costosi trasbordi delle merci a dorso di mulo, dallo Sperone dei Francesi alla Valle della Rocchetta. Qui, Leonardo da Vinci studiò a più riprese la possibilità di aprire un canale nell’alveo del fiume e, sempre qui, lasciò degli appunti sui suoi sopralluoghi che gli fornirono lo spunto per lo sfondo dei suoi quadri più celebri fra cui la “Vergine delle Rocce” (località “Li Tre Corni”). Il progetto non ebbe, però, il successo sperato per l’ingente somma di denaro richiesta e lo sperpero pubblico che ne seguì. Fu ripreso molti anni dopo, nel 1777, dal governo austriaco che, abbandonato il disegno iniziale dell’unica grande conca (Castello) di Giuseppe Meda, distribuì il superamento del dislivello del fiume lungo una successione di conche lineari.
Le numerose opere idrauliche disseminate lungo il percorso del Martesana, frutto di geni solitari ma anche della tradizione tecnica della Scuola Idraulica Milanese e Lombarda, mettevano il naviglio in grado di provvedere, su tutta la linea al trasporto, all'uso irriguo e all’utilizzo di forza motrice per gli opifici idraulici.
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