Le numerose testimonianze che sono state raccolte confermano il progressivo distacco del quartiere da quella che era l’anima del vecchio borgo; eppure qualcosa ancora del vecchio orgoglio rivierasco sopravvive nei ricordi e nelle memorie dei protagonisti che lo animarono negli anni fra le due guerre. Emerge dai loro racconti la nostalgia per un periodo che, anche se pur povero, era riuscito a trasmettere loro un senso di viva partecipazione e condivisione. Laddove non possono più i luoghi fisici sono le memorie a far vibrare i cuori e gli animi. Il magazzino della Gorla “rivierasca” sta lentamente svuotandosi perdendo sempre più di peso; a mano a mano che gli ultimi protagonisti lasciano la scena i rincalzi non riescono più a calibrare la propria storia a dimensione del borgo e del naviglio; rimane un senso di pervadente frustrazione anche se, per la verità, qualche labile fiammella ancora arde nelle aspettative di chi vorrebbe aggrapparsi ai ricordi e sostenere, con fierezza, che ancora si può prendere il meglio di ciò che era.
Ma cosa era Gorla? Un covo di Carbonari, almeno così paventava qualcuno nel Regno Lombardo-Veneto. “Son degni di nota poi anche due conjugi forestieri, credo inquilini dei Mendel, sui quali corsero voci assai strane: chi li diceva emigrati di Francia, chi emissarii del famigerato Robespierre, chi perfino spie del Governo Austriaco. Forse derivò dal tratto alquanto misterioso di questi due vecchi il sospetto che s’ingenerò nel pubblico, ed anche pare nel Governo Tedesco, che a Gorla si annidasse un coro di congiurati politici, ossia di Carbonari, come si chiamavano allora. Fu però solo sospetto? Risponderà chi ne sa più dello scrivente. Quello che par certo è che il Governo Austriaco vi mandava spesso i suo cagnotti a fiutare, e che vi era visto bene come il fumo negli occhi, specialmente dopo la famosa Ma Gorla era anche “scapigliata” ancora prima della proclamazione dell’unità nazionale; espropriazione sforzosa dei terreni per lo stradale.”
Nelle ville poste lungo il Martesana si tennero spesso feste sontuose e balli che per lo sfarzo dei costumi e per la presenza di illustri personaggi dell'aristocrazia destarono scalpore nella città di Milano; in particolare destò scalpore il ballo organizzato il 30 gennaio 1828 nella Villa del Conte Antonio Giuseppe Batthyany; i partecipanti nei loro sontuosi abiti furono immortalati dal pittore Francesco Hayez su cartoncini; ancor oggi si possono ammirare al Museo Poldi Pezzoli le vetrate che riproducono i sontuosi costumi dell'aristocrazia milanese. La festa durò fino alle otto del mattino; tra gli invitati vi era anche un certo Gaetano Barbieri che, recitando versi adulatori sui vari padroni di casa, era molto abile ad intrufolarsi nelle feste per carpire ogni traccia di dissenso o di cospirazione. Si scoprirà in seguito che era una spia della polizia austriaca.
La vivace tradizione culturale, la competente capacità amministrativa e il primato nelle attività economiche ponevano la città di Milano su un livello sicuramente più alto rispetto alle altre città italiane eppure doveva sottostare alla precarietà e alla mediocrità di uno stato unitario ancora troppo disperso e confusionario. Fervevano al proprio interno gruppi di scrittori, milanesi per nascita o adozione, molto attivi in campo editoriale che spingevano Milano ad uscire dal proprio involucro ottocentesco e a ribellarsi all’intorpidimento di una civiltà importata a piè pari dall’Europa a discapito dei valori autoctoni. Gli scrittori si proponevano di giovare alla pubblica utilità, soprattutto in quei settori che stavano caratterizzando il progresso economico della Lombardia come l’agricoltura, il commercio, l’industria.
Milano era l’epicentro delle varie correnti culturali che andavano dal fervore riformistico del Circolo Illuminista dei fratelli Verri, raccolto intorno al giornale “Il Caffè” (1764-1766) uscito su iniziativa di Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, Giuseppe Visconti, Sebastiano Franci, all’impegno politico-civile e di rinnovamento culturale promosso dalle pagine del foglio letterario “Il Conciliatore”, il “foglio azzurro”, come era chiamato per il colore della carta di stampa, uscito Milano, con cadenza bisettimanale, fra il settembre del 1818 e l’ottobre del 1819, quando venne chiuso dalla polizia austriaca. Il foglio era finanziato da due nobili liberali, il marchese Luigi Porro Lambertenghi e il conte Federico Confalonieri, che insieme ai redattori Silvio Pellico e Pietro Borsieri (che stese il programma del “foglio scientifico-letterario”) furono condannati nei processi del 1821 per cospirazione contro l’Austria. Gli altri redattori erano Ludovico di Breme e Giovanni Berchet, ai quali si aggiunsero articolisti di rilievo come Ermes Visconti e Gian Domenico Romagnosi.
Anche il movimento culturale della Scapigliatura andava in questa direzione. Il termine “Scapigliatura” venne impiegato per la prima volta da Cletto Arrighi - pseudonimo di Carlo Righetti - come traduzione del termine francese Bohème in un romanzo apparso nel 1858: La Scapigliatura e il 6 febbraio. Il gruppo della Scapigliatura milanese era costituito dal poeta e pittore Emilio Praga (1839-1875), da Iginio Ugo Tarchetti romanziere e poeta (1839-1869), dai fratelli Camillo (1836-1914) e Arrigo Boito (1842-1918) architetto e autore di novelle il primo, poeta musicista il secondo, da Carlo Dossi (1849-1910), audace sperimentatore linguistico, da Giuseppe Rovani (1818-1874) modello d’attività intellettuale e condotta di vita.
Lo scapigliato Emilio Praga, poeta e pittore, era nato il 18 dicembre 1839 nel borgo di Gorla da famiglia benestante. Il padre disponeva di una conceria di pelli e la madre, donna di cultura, gli aprì la strada dei salotti culturali dell’epoca. Memorabili furono le sue gesta di ragazzo scapigliato, ribelle e intraprendente in una Milano addormentata, teso nell’inseguimento dei modelli metropolitani europei. Praga visse proprio qui in riva al naviglio, in un paesaggio di verde e corti che s’aprivano sul naviglio, la sua stagione di ragazzo ribelle. Girò l’Europa con la sua tavolozza di colori assimilando condotte di vita e modelli esistenziali, ma riportandoli sempre al borgo natìo che fece da teatro alle sue imprese fuori dalle righe. A vent’anni esponeva già a Brera, a ventitré pubblicava la sua prima raccolta di versi “Tavolozza”. Le sue amicizie proverbiali con gli esponenti della Scapigliatura milanese, Giuseppe Rovani, Cletto Arrighi, Iginio Ugo Tarchetti lo condussero sulla strada della sregolatezza contrassegnata da abbondanti bevute e solenni sbornie. A ventisei anni, nel 1865, ebbe la cattedra di letteratura al Conservatorio di Milano, ma la sua condotta di vita non si confaceva con il nuovo ruolo d’insegnante. Morirà nel 1875.
I ricordi più vivi nel borgo portavano, però, a figure come il Parroco di Turro, Don Fossati (1866), i Sacerdoti Davide Sesia e, soprattutto, Don Paolo Locatelli. Don Paolo Locatelli venne consacrato Sacerdote nel 1906 e assegnato alla Parrocchia di S. Maria Assunta in Turro Milanese come assistente dell’Oratorio nel 1907. Il suo impegno fu tutto per l’Oratorio (la sua vera passione) che considerava un vero istituto di formazione spirituale per i ragazzi. A pochi mesi dalla cessazione delle ostilità belliche venne nominato Delegato Arcivescovile alla Borgata di Gorla. Il 6 aprile del 1919 entrò nella piccola chiesa dedicata a San Bartolomeo. All’inizio, non possedendo una casa parrocchiale, elesse il proprio domicilio prima in Via Pisino e poi in Via Monte S. Gabriele. Furono quelli anni difficili in cui Don Paolo Locatelli dovette misurarsi con l’ostilità dell’ambiente anticlericale; la vicinanza dell’osteria, dove aveva l’alloggio (quattro stanze sopra l’osteria), gli causò non pochi problemi. “Il Sacerdote Don Paolo Locatelli in omaggio alle disposizioni della Curia si trasferisce a Gorla I, il 4 aprile 1919”. Dal 1919 al 1924 fece posto al nuovo salone dell’Oratorio, al Circolo Cattolico e alla Casa Parrocchiale. Iniziò anche un fervido lavoro che lo porterà alla costruzione della nuova chiesa che verrà inaugurata il 29 marzo 1925. Morirà nel 1954.
La sua fu una storia dove vicende personali s’intrecciarono con quelle del borgo divenendo nel tempo quasi un’unica esperienza e cammino di vita. Dopo un periodo di acute sofferenze, miracolato a suo dire da S. Teresa del Bambin Gesù cui si era rivolto per ottenere la grazia della guarigione, riprese sempre il cammino, dopo alterne vicende, cercando di portare a compimento l’ambizioso progetto di dotare la chiesa di un nuovo oratorio più grande e più ricco con il concorso dei giovani della Parrocchia. Lasciò un’opera e un ammaestramento che molti ancora ricordano. “Il funerale di don Paolo Locatelli è partito dalla Parrocchia di Gorla: a piedi, attraverso via Monte San Gabriele, via Prospero Finzi, piazza Greco, via Emilio De Marchi, la salma è stata portata al cimitero di Greco; quando il feretro è arrivato al cimitero, la coda del corteo era ancora in viale Monza.” Testimonianza di Comparin Gina .
Si costituirono le prime Associazioni Cattoliche: Unione Giovani (1919), Terziari Francescani (1919), Lega di Perseveranza (1919), Figlie di Maria (1919); Circolo Cattolico (1922); si crearono anche stendardi e bandiere come quello dei Terziari Francescani, della bandiera dell’Oratorio Maschile S.Cuore, della bandiera della Perseveranza.
Ma la vita a Gorla non era solo quella delle grandi imprese, era anche quella delle vicende minute, quotidiane che si svolgevano sullo sfondo di un naviglio sonnacchioso e biricchino. Si viveva a stretto contatto allacciando rapporti che oggi si possono solo immaginare. Impressioni, appunti, ricordi sono solo le punte emergenti di una socialità che permeava tutta la vita del borgo e che il senso di una perduta giovinezza arricchiva di pathos. Il ricordo dei protagonisti di allora, nel rievocare il proprio tempo, smorza il tono della voce e illumina gli occhi: ciò che rimane è l’immagine di una Gorla più vicina alla gente, al suo naviglio. Tutto quello che avveniva nel borgo era come una proiezione della propria esistenza vissuta attorno alle Cassine e al naviglio. Impressioni e appunti che colorano ancora oggi i tratti sbiaditi di uno scenario che pure doveva essere molto bello.
“Potrei dire di essere nato sul grande fiume perchè, tanti anni fa, noi bambini così chiamavamo il Canale Martesana. Gorla, per noi piccoli, era una piccola Parigi ed il Martesana diventava per incanto .....la Senna. Si sa che i piccoli, con i loro occhi innocenti, vedono più grandi le cose; danno a tutto quanto li circonda, una luce diversa dal naturale, una luce più accesa ed un colore più smagliante della realtà. Sono trascorsi più di settant'anni da allora ed il tempo avrebbe cancellato inesorabilmente in me queste sensazioni se non fossero così ben radicate e profondamente vissute.” Quelle medesime sensazioni che, a suo dire, lo aiutarono a “rilassarsi e ad attingere nuova linfa vitale”. Il Martesana era, di fatto, una grande strada e come tutte le grandi strade aveva la sua lezione da impartire. Vigotti sosteneva che il “manto stradale” del naviglio non abbisognava di manutenzione e “non doveva essere mai rifatto; non aveva buche, non aveva incroci, semafori o passaggi pedonali” che potessero intralciare il percorso ed infine “era totalmente gratuito”. Testimonianza di Vigotti Ambrogio.
Il grande fiume “scorreva silenzioso e sinuoso nel cuore di Gorla” impregnando di sé la vita di tutto il borgo. Ciò che sorprende è la stretta complementarietà fra vita e naviglio. Ogni cosa, anche il gioco, soprattutto il gioco, faceva diretto riferimento al naviglio. I ragazzi saltavano su e giù dai barconi al loro passaggio con grandi imprecazioni dei conducenti. E poi nei giorni festivi, ma anche in quelli feriali, “chi passeggiava sull'alzaia aveva il piacere d’incontrare diversi pittori intenti a dipingere su una tela gli scorci più belli e suggestivi del corso d'acqua. Sono passati diversi anni ma il ricordo del pittore Moizo è sempre vivo in me. Questi era di media statura con un pizzetto argenteo molto ben curato. I suoi quadri erano stupendi e attiravano l' attenzione dei passanti. Abitava al n. 4 di via Asiago di fronte alla chiesa. Penso che la sig.ra Moizo, nuora del pittore, ne conservi ancora qualcuno”. Testimonianza di Vigotti Ambrogio.
“A quei tempi a Gorla ci si conosceva tutti: facendo il chierichetto, al tempo della benedizione delle case, con Don Paolo Locatelli entravo in contatto con tutte le famiglie del quartiere reggendo il secchiello con l’acqua santa dentro cui, al termine, il capofamiglia metteva la monetina del misero obolo. Ho smesso di fare il chierichetto prendendo un ceffone da Don Locatelli perché parlavo in chiesa”. Testimonianza di Melzi Ambrogio.
“La vita era dura e si guardava con miraggio la messa all’Istituto dei rachitici: al termine della funzione le suore offrivano a Don Locatelli qualche pasticcino e ai chierichetti una scodellina con dei biscotti secchi: una festa per noi”. Testimonianza di Melzi Ambrogio.
Molte cose nel quartiere, senza apparente significato, acquistavano nell’immaginario collettivo una propria esclusiva collocazione. Ecco allora che il leone di pietra della Villa Angelica diventava il confidente più fidato dei ragazzi del quartiere. “Il leone di pietra che si trova oggi a lato dell' ingresso della chiesa di Santa Chiara, prima giaceva nella darsena della canottieri. Era il nostro amico più sincero perchè non parlava mai male di nessuno. Il perchè di quel leone nessuno lo sapeva esattamente. Si diceva che una signora sola, che abitava nella Villa Angelica, avesse un grosso cane al quale era molto affezionata. Un giorno il cane morì e lei, per ricordo, fece eseguire da uno scultore quel leone di granito”. Testimonianza di Vigotti Ambrogio.
“Gli inverni ai miei tempi erano molto rigidi. Mi ricordo che nell' anno 1928 o nel 33 il termometro segnò minime di - 19 °. Sul Corriere della Sera l'avvenimento era stampato a caratteri cubitali. Anche d'inverno il Martesana offriva le sua collaborazione per lo sgombero della neve che cadeva copiosa. A Milano, ai miei tempi, la neve cadeva sovente e copriva la città anche con 50 cm di altezza e più. Candelotti di ghiaccio pendevano dai tetti e dalle grondaie ed i vetri di alcune fredde case erano incrostati con un sottile velo di ghiaccio che formava dei curiosi arabeschi. Per liberare la neve dalle strade, al mattino presto passava la "calata". La “calata” era un grande triangolo di legno appesantito con dei massi e trainato da una coppia di cavalli. Raschiando sul fondo stradale, il triangolo spingeva la neve ai lati della strada formando così due cordoni di neve. Con dei carri a grandi ruote, detti i "Marnun", massicci ma di piccola capacità (un metro cubo) trainati da un solo cavallo, la neve veniva caricata con il badile e rovesciata nel Martesana a mucchi distanziati per non ostruire il corso d’acqua. La corrente trascinava e scioglieva la neve ed il Paese riprendeva il suo normale ritmo.“ Testimonianza di Vigotti Ambrogio.
Il paesaggio disegnato dal borgo di Gorla era un paesaggio domestico dove ognuno sapeva esattamente quello che accadeva intorno dando modo d’intendere che conosceva anche luoghi e nomignoli più disparati. Nulla sfuggiva all’attenzione e alla curiosità quotidiane poiché ogni cosa, avvenimento erano debitamente annotati e descritti. Ciò che sorprende nei racconti dei protagonisti è, infatti, l’esatta corrispondenza di tutti i particolari e la presenza costante del naviglio a garanzia di tutto. “Quando c'era qualche ricorrenza, i cittadini di Gorla noleggiavano un barcone per l'occasione. Lo addobbavano con festoni colorati e lo ancoravano al Naviglio al "Cantun Frecc". Su questo barcone illuminato si mangiava, si beveva, si cantava e si ballava al suono di una orchestrina. Si aveva pure l’occasione di stringere amicizie coi nostri simili. Riflessione: perchè oggigiorno ci siamo rintanati nel buio del nostro guscio? Non perdiamo forse di vista che le buone amicizie promuovono un buon rapporto sociale e ci tolgono dalla solitudine?” Testimonianza di Vigotti Ambrogio.
Ogni occasione era buona per fare festa. “Tutti gli anni in via Tofane veniva ormeggiato un barcone che veniva utilizzato come sala da ballo.” Testimonianza di Vigotti Ambrogio. Ci s’affacciava sul naviglio che allora pullulava di pesci, tanti e di diversa specie: anguille, tinche, lucci, botole ed anche gamberi. Quando il naviglio veniva messo in secca due volte all’anno per la pulizia generale rimaneva pur sempre una ventina di centimetri d'acqua e qui i pescatori s’industriavano a creare degli sbarramenti che, una volta svuotati, davano un buon quantitativo di pesci.
Nel naviglio si trovavano anche risorse inaspettate, per esempio "El Bagnin", una rudimentale piscina all’aperto proprio di fronte alla torretta ottagonale della Villa Dupré. Le sue dimensioni erano all' inizio di metri 18 x 12 e aveva una profondità di tre metri, il che consentiva dei tuffi notevoli. Prendeva l'acqua dal Martesana e la scaricava nella Roggia Taverna (detta più comunemente “Taveggia”). Quella roggia era la palestra di nuoto dei ragazzini; lì imparavano i primi elementi del nuoto per cimentasi nel grande salto dal Ponte Vecchio nel “grande fiume” (il naviglio); quel salto, in così poca acqua (metri 1,5), era davvero un’impresa audace, il traguardo da superare per meritare il rispetto del gruppo; quando poi dopo tanti tentativi si riusciva nell'intento allora l’esultanza era grande. Ci si tuffava alle volte dietro un compenso di 50 centesimi. In riva al Naviglio c’era la prima piscina all’aperto di Milano: si chiamava “El Bagnin” dove i più esperti andavano a nuotare mentre i più piccoli prendevano confidenza con l’acqua al Taveggia, il corso d’acqua che scorreva dalle parti di via Stamira D'Ancona. Testimonianza di Casati Liliana. “D’estate il naviglio diventava un bagno pubblico: i genitori non mettevano l’acqua a scaldare nelle bagnarole ma ci portavano in riva con sapone e salviette per la pulizia generale.” Testimonianza di Casati Liliana.
D'estate la grande attrazione era il Naviglio e quella che molti chiamavano la "spiaggetta”; si facevano i bagni, i coraggiosi si tuffavano dal ponte vecchio, i buontemponi architettavano scherzi bonari. “Ricordo quello del portafogli: si metteva per terra un portafogli legato ad una cordicella sottilissima, praticamente invisibile; non c'era traffico e i passanti erano rari; quando qualcuno notava il portafogli per terra si guardava attorno con aria furtiva per assicurarsi che nessuno lo vedesse e poi, di scatto, si chinava per raccoglierlo: in quel momento dall'altro capo della fune si dava uno strattone e giù tutti a scoppiare di risate”. Testimonianza di Metti Erminio.
“Tutta la riva del Naviglio era un giardino molto curato e in via Asiago c'era un'estesa coltivazione di rose che apparteneva a un fiorista di Precotto. Testimonianza di Casati Liliana. “Sulle rive del Naviglio erano state ricavate delle rientranze per lavare i panni usando delle pietre lisce sistemate in pendenza verso l’acqua. Per molto tempo i i barconi che trasportavano sabbia e ghiaia, quando andavano controcorrente, venivano trascinati dai cavalli, poi venne la barca a motore che, con il suo movimento, faceva innalzare il livello dell’acqua che produceva una grossa onda. Al grido di “el riva el barcon" le donne si ritiravano per evitare di essere investite dall’onda.” Testimonianza di Casati Liliana.
La vita era sicuramente diversa, più a misura d’uomo. Non c’era traffico ma vigevano anche a quel tempo restrizioni e confini invalicabili. “Pur non essendoci il traffico di adesso, da bambini ci era proibito attraversare viale Monza da soli e quando uscivo da scuola mi portavo di fronte a casa poi, seduta sulla cartella (di fibra), aspettavo che la portinaia, la signora Teresa, venisse a prendermi. Capitava a volte che non si rendesse conto del tempo che passava e allora cominciavo a chiamarla a gran voce per attirare la sua attenzione”. Testimonianza di Comparin Gina.
Le vicende personali s’intrecciano a quelle collettive ed il ricordo diviene un corpo unico in cui è difficile distinguere il particolare dal generale. “Vivo tuttora in quella parte di Gorla dove ho trascorso la mia infanzia e, benché il paesaggio odierno sia profondamente mutato, basta talvolta un profumo, uno scorcio di colore, un'immagine per riportarmi - indietro agli anni Cinquanta quando la "Curt di paisan", la Villa Angelica, il naviglio, Piazza Piccoli Martiri e Via Fratelli Pozzi erano il luogo dei miei giochi insieme ai miei fratelli e a una numerosa schiera di coetanei. C'è ancora nel giardino di Via Fratelli Pozzi 10 un albero di tiglio. Appena fiorisce il suo profumo mi riporta alle sere di maggio quando il giorno sembrava non finire mai e noi bambini, dopo il rosario, ci attardavamo in Via Fratelli Pozzi per gli ultimi giochi.” Testimonianza di Rosalina Galbiati.
Pareva veramente, stando ai racconti dei nostri protagonisti, che il giorno non finisse mai e che la strada, il cortile diventassero un unico spazio-vita dove misurarsi non solo con il gioco ma con la vita stessa. Non si trattava solo di ragazzi ma anche di adulti, operai, mamme. “Non c'erano auto e la via diventava un grande cortile per giocare a "mondo", nascondino oppure a rialzo su e giù dal marciapiede finché la luce del giorno sfumava e le mamme ci richiamavano in casa affacciandosi alle finestre. Nella bella stagione, a mezzogiorno, la medesima via diventava sala da pranzo e salotto per gli operai delle "Rubinetterie Mariani”, che seduti sui marciapiedi consumavano il loro pasto e conversavano finché la sirena li richiamava al lavoro per il turno pomeridiano. C'è ancora lungo il naviglio sul lato destro un muretto ormai parzialmente diroccato dove si aggrovigliano alcuni rami di glicine, residui di un'enorme pianta che ricopriva tutto un muretto più alto di quello rimasto e che costeggiava il naviglio per un tratto di venti o forse trenta metri fino all'imbarcadero dei canottieri. Nei giorni d'estate quel muretto diventava per noi ragazzi un punto di osservazione del passaggio dei barconi, delle canoe e ... delle libellule, che chiamavamo "spose" e che catturavamo per osservare la trasparenza delle ali (simile forse a quella del velo da sposa) e i colori brillanti e irridescenti dei loro corpi affusolati.” Testimonianza di Rosalina Galbiati.
I ricordi vagano liberi evocando sensazioni legate ad immagini fissate nella mente durante il periodo della gioventù. Della Villa Finzi il ricordo va al cancello d’entrata principale, quello che dava sul viale Monza; di quello che dava su via Finzi il ricordo si fissava, invece, sulla presenza inquietante del custode. E poi ancora la casa d’angolo tra via Dolomiti e via Tofane, il fiorista Casiraghi, la Canottieri Martesana, la festa dell’uva durante il periodo della vendemmia insieme all’Osteria Lazzaroni (via Dolomiti) appena al di là del ponte vecchio. In via Pozzi, in una villetta, abitava la levatrice, Stefania Tabacchi; l'altra levatrice, la Signora Maria, abitava in Viale Monza.
Fra i ricordi che fluiscono in grande quantità consegnando emozioni ed immagini toccanti, quello della Signora Vigotti colpisce per la semplicità dell’impianto: frequentando Villa Angelica la signora Vigotti ricordava gli affreschi con le danzatrici nella torretta della villa, il soffitto a cupola e la grande civetta con le ali spiegate. “Non c'è più, invece, la "Villa Angelica ma ne ho impressa nella memoria l'immagine che associo a quella del castello stile Walt Disney. Probabilmente a me bambina quella costruzione, diversa da tutte quelle circostanti, con i tetti spioventi, l'alto parafulmine e l'elegante torretta dava l'idea del magico castello della Bella Addormentata e la torretta, inaccessibile, mi avrà fatto pensare al luogo dove la principessa dormiva il suo sonno incantato. All'interno la Villa Angelica tuttavia non aveva niente di magico; era abitata da normalissime famiglie; aveva uno scalone ampio fino al primo piano, poi la scala si restringeva e si faceva più buia e portava in un piccolo appartamento dove abitava con la sua famiglia la Signora Lina, di professione rimagliatrice di calze di nylon. Non c’è più neppure la bassa costruzione lungo il naviglio dove ora sorgono i palazzi di Via Dolomiti 1. Ricordo che in quella casa c'era l'Osteria della Pinotta, posto proibito a noi ragazzi. Al di là di quella casa c'erano orti e prati e i resti di una cava.” Testimonianza di Rosalina Galbiati.
Il terrazzo della villa, sorretto da colonne di granito, serviva anche da porticciolo per le barche della Canottieri Martesana. “Io abitavo vicino alla sede della canottieri ed ottenni di appartenere al Club pur non essendo un dipendente della Magneti Marelli. Alla sera, tornato a casa dal lavoro, staccavo la barca dall'ormeggio e risalivo il Martesana fino a Vimodrone o Cernusco. Una bella doccia di acqua fredda (fino a Novembre inoltrato) mi toglieva poi la stanchezza e mi ritemprava il corpo e lo spirito. Alla Domenica pomeriggio, mi portavo in barca a Crescenzago con un mio amico e poi, al ritorno, ci posizionavamo tutti e due a poppa (con la prua alzata) e con la chitarra e mandolino suonavamo le canzoni dell'epoca. Ho dimenticato di dire che le barche avevano tutte un nome femminile.” Testimonianza di Vigotti Ambrogio.
Ci si divertiva anche con le barche: “Divertenti erano i cosiddetti "Stravachin". Queste picccole barche a remi, monoposto, avevano la prua a punta ed erano piatte a poppa.Le chiamavano così perchè si rovesciavano facilmente col divertimento dei presenti. Vedere passare le barche sul Martesana era una attrazione non solo per noi giovani, ma anche per i cittadini di Gorla e de paesi limitrofi come Precotto e Turro che non avevano la fortuna di possedere il Naviglio. Alle volte i canottieri scherzavano tra loro e si divertivano rovesciando secchi colmi d'acqua, dalPonte vecchio, in testa ai loro compagni che erano in barca. Immaginate il divertimento di noi ragazzi.” Testimonianza di Vigotti Ambrogio.
I divertimenti erano quelli di tutti i ragazzi anche se ciò che sorprende era la loro famigliarità con l’acqua. “Da ragazzi non avevamo molti passatempi: eravamo organizzati in bande di quartiere e ci scontravamo spesso a sassate con quelli di Turro; dopo le nostre incursioni, quando venivamo inseguiti, ci rifugiavamo sulla massicciata del tram o sul tetto della Canottieri e tempestavamo di sassi i nostri avversari. Un'altra delle nostre occupazioni era quella di bersagliare le lampade dei lampioni o le vetrate di qualche officina con le fionde. Poi venne l'oratorio! Un altro passatempo, durante l'estate, era il bagno nel Naviglio La balneazione era proibita (era anche piuttosto pericolosa) ma noi, lasciati i vestiti sulla riva, ci tuffavamo lo stesso nel canale. Risultato: spesso i vigili urbani, arrivati all'improvviso, ci sequestravano gli indumenti ed il ritorno a casa era drammatico perché i nostri genitori non ce la lasciavano passare liscia”. Testimonianza di Melzi Ambrogio.
Le rivalità tra i quartieri (allora ancora simili a paesi) erano molto accentuate. “Ricordo che consideravamo gli abitanti di Precotto alla stregua di paesani mentre noi ci sentivamo cittadini milanesi. Tra di noi c'era molta solidarietà e ci si aiutava spontaneamente senza che chi aveva bisogno dovesse chiedere.” Testimonianza di Metti Erminio.
Un’altra piccola bravata dei ragazzi del quartiere era quella “di svuotare i bossoli dei proiettili (allora ne circolavano parecchi) e mettere la polvere da sparo, a mucchietti, sui binari: quando passavano le vetture del tram per Sesto e Monza sembrava di sentir crepitare le mitragliatrici. Il convoglio si arrestava e i tramvieri scendevano infuriati ma noi eravamo già al riparo, irraggiungibili. Un altro gioco pericoloso era quello di svuotare i bengala inesplosi che ancora si trovavano qua e là ed incendiare il magnesio.” Testimonianza di Melzi Ambrogio.
I ragazzi non mancavano poi di osservare le persone che uscivano ubriache il sabato e la domenica soprattutto dall’osteria di fronte a Villa Angelica e che incamminandosi barcollanti sull'argine del Naviglio minacciavano ad ogni passo di finirvi dentro. “Cosa che però non capitava mai perché, si diceva, c'era il loro Santo protettore a proteggerli.” Testimonianza di Melzi Ambrogio.
Forse c’era bisogno del Santo Protettore anche per il gioco della “scarlighera” che i ragazzi praticavano nelle adiacenze delle case della Fondazione Crespi Morbio: un grande spazio libero, più basso rispetto al livello stradale, diventava una favolosa pista su ghiaccio “durante l’inverno, con delle grosse latte sventrate, i nostri genitori facevano una specie di scivolo su cui si formava il ghiaccio quando nevicava: per noi era un grandissimo divertimento scivolarvi sopra, cioè fare la scarlighera.” Testimonianza di Casati Liliana.
“Venendo da Greco si aveva l'impressione che i ponti della ferrovia fossero una specie di confine, che a Gorla ci fosse più vita (osterie e ristoranti, strade, movimento). Al Cantun Frecc e alla Ca’ Rossa si guardava come a luoghi di grande attrazione. Lungo il naviglio, dalla parte di Gorla c’era ancora la strada mentre ai ponti diventava un sentierino: questo da quando i barconi non venivano più trainati dai cavalli ma con un barchino a motore.” Testimonianza di Banfi Gianni.
“Viale Monza era a corsia unica per ogni senso di marcia; a fianco correvano i binari del tram che da Porta Venezia arrivava a Sesto San Giovanni (il locale) e a Monza (il diretto).” Testimonianza di Metti Erminio. Nel primo dopoguerra, a parte le biciclette, il tram era l’unico mezzo di trasporto. Le vetture erano sempre strapiene e la gente viaggiava appesa a grappoli alle carrozze. “Attorno all'abitato c'erano ancora molti campi coltivati intercalati da povere case. In viale Monza, di fronte al Mercato comunale, c'era la pesa pubblica dove gli autocarri in entrata e uscita sostavano per la pesatura della tara e del peso netto. Dallo stesso lato, in riva al Naviglio, al “Cantun frecc” le lavandaie lavavano i panni d'estate e d'inverno.” Testimonianza di Metti Erminio. “Dietro il Gaetano Pini c'era la Cucirini Purinelli. Ora sta sorgendo un grosso ospedale che ospiterà l'istituto rachitici mentre l’attuale sede diventerà una casa per anziani.“ Testimonianza di Melzi Ambrogio.
La Gorla del primo dopoguerra era un po' diversa da quella attuale. “Nella Piazza dei Piccoli Martiri c'era una cascina, un fabbricato basso a forma di "L" con un lato di fronte alla chiesa. Era abitato da contadini e carrettieri (i carri avevano un cassone dalle sponde alte e ruote molto grosse). Il piazzale davanti all'oratorio era sterrato. In via Ranzato c'era la villetta bassa della famiglia Brevi ed una grossa buca dove era caduta una bomba; ricordo un sentierino a "S" ed una coltivazione di fragole: al momento della maturazione la Virginia (la proprietaria) dormiva in un gabbiotto degli attrezzi per evitare che le rubassero le fragole.“ Testimonianza di Metti Erminio.
Montalbetti Pietro ricorda il suo ufficio postale “Mio padre, che era titolare dì ufficio postale, è morto dopo qualche mese. A lui è subentrata mia madre. Ci siamo poi trasferiti all'ufficio postale di Gorla che allora aveva sede nei locali dell'attuale “Gorlatexil” (era il 1928). Io ho lavorato per qualche tempo con mia madre, poi sono stato assunto alle Poste di piazza Cordusio. Ho fatto il servizio militare a Pavia, nel Genio, quindi son tornato a lavorare con mia madre. Nel 1942 l'ufficio postale è stato spostato in via Pirano e, successivamente, in via Teocrito. Qui è diventato titolare mio fratello, ora in pensione, mentre io mi ero già ritirato in precedenza”. Testimonianza di Montalbetti Pietro.
“La mia vita da ragazzo si è svolta essenzialmente in oratorio. Assistente era don Ferdinando Frattino. In oratorio avevamo dato vita ad una squadra di calcio che partecipava al campionato CSI, un torneo tra squadre di oratorio dalle quali sono usciti anche calciatori diventati famosi (da quella di Turro, per esempio uscirono Bruno Bolchi ed Enea Annibale, che hanno giocato in serie A). Anch'io avevo delle buone possibilità: ero entrato nei ragazzi della Pro Sesto (che militava in serie C ma quando pretesero che mi allenassi con maggiore regolarità mio padre mi stroncò dicendo che "al calcio giocano quelli che non hanno voglia di lavorare". Testimonianza di Metti Erminio.
“In Parrocchia c’era la corale, diretta dal maestro Andreoni: era formata di soli uomini, perché a quei tempi le donne non potevano salire sull'altare, ed io ero tra i coristi. Don Paolo promosse una scuola di recitazione di cui entrai a far parte. Anche qui i ruoli femminili dovevano essere interpretati da uomini. Recitavamo soprattutto testi dialettali. Tutti gli anni tenevamo un'accademia in occasione di San Pietro e Paolo, in onore di don Paolo Locatelli e di Don Piero Vittori”. Testimonianza di Bremmi Luciano detto Pierino.
Ma Gorla fu anche investita in pieno da una tragedia che colpì gli affetti più cari del borgo. Negli occhi dei sopravvissuti è rimasta tuttora vivida l’immagine straziante di quei corpi in quel terribile giorno. “Nel terribile bombardamento del 1944, tra i bambini che vi persero la vita, c'era mia sorella Maria che frequentava la quinta elementare. Per mia madre fu un colpo terribile dal quale non si è più ripresa: andava in coma diabetico e la trovavamo stesa per terra. La mia fidanzata, alla quale avevo spiegato la situazione (o mi sposi e vieni in casa a fare da infermiera a mia madre, o per ora lasciamo perdere), accettò di sposarmi e si trasferì in casa nostra”. Testimonianza di Bremmi Luciano. L’episodio che più mi ha impressionato è stata la visione di tanti morti sotto il bombardamento del 1944, allineati nella chiesina: ogni volta che entro in biblioteca ho l’impressione di rivedermeli davanti." Testimonianza di Metti Erminio.
A ricordo della tragedia fu eretto il monumento ai Piccolo Martiri. Ogni anno, il 20 ottobre, Milano ricorda i suoi piccoli martiri con una commemorazione cui partecipa sempre il Sindaco di Milano. “C'è ancora nella piazza il monumento ai Piccoli Martiri. Il 20 ottobre, giorno della commemorazione, anche noi bambini diventavamo seri. Capivamo che era un giorno speciale in cui, invece di giocare e fare chiasso, era meglio fare silenzio e fermarsi nella piazza per guardare le corone di fiori, i lumini e la gente che sostava in preghiera e infine alzare lo sguardo su quella madre dolente col suo bambino abbandonato sulle braccia. C'è ancora silenzio dentro di me ogni volta che guardo quel monumento”. Testimonianza di Comparin Gina.
“Il nome alla via Fratelli Pozzi venne dato dal Sindaco di Gorla Bianchi per ricordare i fratelli di Augusto Ripamonti, l’unico figlio rimasto in vita di una vedova che aveva perso i due figli “Pozzi”, nati dal precedente matrimonio e morti nella prima guerra mondiale”. Testimonianza della Signora Vigotti.
E dopo la tragedia il ricordo vaga un po’ spaesato fra ciò che rimane di quel vecchio borgo, un tempo terra di confine. “Ciò che ricordo della vecchia Gorla non è molto. Nella piazzetta davanti all'ingresso dell'oratorio si giocava al pallone: macchine non ce n'erano. In via Minturno c'erano delle montagnette, il gioco delle bocce e gli orti (un pezzo era di mio papà). In via Asiago, nella prima via a destra c'era la Corte dei paesani (dove adesso c'è la trattoria) con una grande aia e i cavalli; lì abitavano Adele Fossati e la camiciaia signora Bremmi: il portone dava su un grande cortile. Dell'attuale biblioteca ricordo che era tanto buia, c'erano delle sedie e la sorella di don Locatelli ci insegnava il catechismo. Via Teocrito non era asfaltata: c'erano alberi e siepi e ci andavamo spesso a fare delle fotografie di gruppo. Da Villanuova partiva un fossato che passava sotto il Naviglio. In viale Monza la farmacia era accanto all'attuale negozio di ferramenta e di fronte c'era l'edicola (allora era un chiosco in metallo): al posto del calzaturificio Ricci c'era una latteria. Più avanti c'era il panificio dove spesso portavamo a cuocere, pagando una piccola somma, le torte fatte in casa. Ricordo che alle volte, sapendo che eravamo in difficoltà, il panettiere non ci faceva pagare”. Testimonianza di Comparin Gina.
“Il quartiere è quello di Gorla, che a inizi Novecento era un paese alle porte di Milano, e che oggi è una semplice fermata del metro, ormai cuore del terziario definitivamente respinto dal centro storico. Quel quartiere ha conservato un’anima che ha radici lontane. E il comico a Milano ha radici lontane. Zelig, il locale di Viale Monza 140 divenuto oggi famoso anche grazie alla tv, è nato lì, a due passi. Dentro ciò che è rimasto di una specie di Casa del Popolo, con sezioni di partito e un orgoglioso, sopravvissuto “Circolo Familiare di Unità Proletaria”. Accanto era annesso un locale da ballo, nel dopoguerra: la balera dei Buschètt, perché lì dietro, a pochi passi da Villa Singer c’erano ancora degli alberi, e così numerosi da assurgere alla dignità di bosco, se pur piccolo. La sala da ballo divenne negli anni Sessanta il mitico “Tricheco”, che stava al “Piper” di Roma come la Cinquecento alla Lancia Fulvia: molto meglio la prima. Sano beat e “celentanoidi”, gli innumerevoli emuli di Adriano. C’era Teocoli con i “Quelli” (la bambolina che fa no-no-no…) e Jannacci e Gaberche cantavano “Una fetta di limone”, cui le misure del rock avevano imposto la finale tronca “nel tè”. Testimonianza di Gino & Michele, op. cit.
“Sarà perché a Milano c’era la nebbia. O per le cotolette, che si digeriscono lente, con tutto quel burro. Sarà perché il Duomo è buio, dentro, e mette un po’ a disagio. Non si è mai visto un milanese ridere per strada. È vero che ha sempre fretta, e anche quando il passo non è agitato gli si legge negli occhi che ha da raggiungere una meta, piccola o grande che sia, ma pur sempre una meta. I milanesi non hanno animo né tempo per ridere, a gratis. I milanesi ridono per scelta. Lo fanno da grandi intenditori perché il riso – la versione dell’altra metà del tragico – fa parte della loro cultura. Il milanese ama coltivare quella parte di sé che sa leggere la realtà capovolta. La ama a tal punto che se la coccola da secoli dentro quei necessari luoghi di comunicazione che sono i locali pubblici nati per il convivio. Lo erano le antiche osterie, le trattorie fuori e dentro porta. E via via i trani periferici delle contaminazioni nord-sud, e i bar, le cantine, fino ai pub di oggi. Tutti i milanesi, dal popolo dei “Cibi cotti”, alle aristocrazie dei salotti letterari. Persino il grande romanzo del perbenismo ottocentesco – i Promessi sposi – è intriso di umorismo sottile e di bonaria arguta ironia”. Testimonianza di Gino & Michele.
“Chi ha detto che il milanese è triste... Se qualcuno ancora crede in una Milano noiosa e un po’ troppo bacchettona, vada a ripercorrersi le follie della Scapigliatura, movimento letterario lombardo unico e irripetibile. O riscopra Carlo Porta. E, perché no, il teatro di Mazzarella, le intuizioni di Bramieri, le sublimi genialità logorroiche di Walter Chiari, le riscritture della donna meneghina inventate dall’inimitabile Franca Valeri. Si lasci affascinare dalla breve quanto incisiva esperienza del Teatro da Camera dei Gobbi. Persino la cucina grassa ma a suo modo “elegantemente” provinciale dei primi Legnanesi può farci riflettere su quell’anima comica mai doma che trasversalmente ha attraversato la cultura lombarda. Milano ha regalato al mondo un premio Nobel maestro di comicità, Dario Fo. E un grande poeta che sa di musica, Enzo Jannacci. A Milano sono maturati scrittori anomali spesso contaminati dal gusto di quell’autoironia metropolitana che i milanesi conoscono molto bene e sanno coltivare con gelosia. Quanto amaro, a volte violento sarcasmo nelle pagine che descrivevano la Milano del boom nella Vita agra di Bianciardi, milanese d’adozione. O la città delle notti disincantate di Umberto Simonetta. Quanta ironia nella metropoli anche marginale di quella formidabile pedina fuori posto che fu il giornalista Rai Beppe Viola. E negli scritti ricercati e colti di Gianni Brera, intellettuale lombardo di genio prestato alla Milano sportiva. O nelle cronache a volte esilaranti di Camilla Cederna, sofisticata immagine del potere e dell’opposizione della “sua” città. Gente che ha respirato Milano, la sua aria antica e modernissima, difficile, anche, ma sempre vitale. Intellettuali che non si chiudevano in casa”. Testimonianza di Gino & Michele.
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- Cesare Cantù, Grande Illustrazione del Lombardo Veneto. Milano, 1857.
- “Memorie stese dal parroco locale e pubblicate nella faustissima benedizione e inaugurazione della nuova chiesa parrocchiale”. Milano, Sac. Davide Sesia. Tipografia della Casa Editrice “Osservatore Cattolico”, Milano, 1886.
- Le notizie sono liberamente tratte dal “Liber Chronicus” della Parrocchia di Santa Teresa del Bambin Gesù di Gorla. Trascrizioni di impressioni di cronista e testimoni oculari.
- Le notizie dei bombardamenti su Milano sono riprese dal libro di Achille Rastelli: “Bombe sulla città”, Edizione Mursia, Milano 2004.
- La cronaca del fatto e la storia del monumento sono ripresi dal volumetto “20 Ottobre 1944…Dicevano che la guerra era finita…” a cura di Achille Restelli. Milano, ottobre 2002.
- L’insegnante, Maria Luisa Rumi, che al tempo del bombardamento frequentava la scuola, ricorda nei suoi appunti quel tragico giorno.
Testimonianze di:
Bremmi Luciano
Metti Erminio
Comparin Gina
Rosalina Galbiati
Banfi Gianni
Melzi Ambrogio
Montalbetti Pietro
Vigotti Ambrogio
Signora Vigotti
Casati Liliana
Gino & Michele
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